Il lavoro non basta

L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, proclama l’art. 1 della Costituzione italiana. Ma quale “lavoro”?

Stefano Diana
3 min readMay 1, 2021

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Photo by Quino Al on Unsplash

Il dramma non è che il senso del “lavoro” sia tanto cambiato da quello che ispirò i Padri costituenti, ma che il cambiamento sia ignorato da una retorica di pietra.

Il lavoro per la sopravvivenza, forzato, meschino, sporco, odioso, quello nell’open space brutto e rumoroso da raggiungere ogni giorno attraversando ore di traffico o in un treno sporco e affollato, quello nel campo a schiena piegata a raccogliere pomodori per due soldi sotto l’occhio del caporale, quello a bocconcini della gig economy, quello sorvegliato e temporizzato dalla intelligenza artificiale.

Il lavoro di un artista o di un ricercatore che si fondono completamente col loro fare fino all’oblio del mondo esterno, come Rodin all’opera descritto da Stefan Zweig ne Il mondo di ieri, come Orson Welles che non conosce distinzioni tra lavoro e tempo libero. Il lavoro di chi è libero da necessità e desidera darsi una ragione di vita, come il miliardario Bartlebooth ne La vita istruzioni per l’uso di George Perec.

Il lavoro di chi si estenua in cerca della propria perfezione, e quello di chi si consuma in cerca di una perfezione altrui. Il lavoro di accumulare sempre più denaro e concentrare sempre più potere. Il lavoro di aiutare gli altri.

Chiamiamo “lavoro” tutti questi modi così disparati di impiegare energie e tempo della vita, benché non abbiano quasi nulla in comune, dalle motivazioni personali al senso sociale. Questo mi pare un grave peccato di leggerezza, di incoscienza. È come se gli Yupik che vivono fra/di acque congelate avessero solo la parola ghiaccio per indicarne tutte le forme possibili, invece di 99: quanto sarebbe più pesante, più misero, più confuso tirare avanti per loro?

Non meno variegati e diversi i modi in cui ciascuno si mette in relazione col mondo mediante il lavoro che fa. Alcuni dànno, altri tolgono; alcuni creano, altri distruggono; alcuni curano, altri guastano. Noi mettiamo tutta questa varietà morale e materiale in una sola parola, “lavoro”, e facciamo di questa esigua parola il pilastro della società.

Eppure lo sappiamo tutti. Sappiamo che per tanti subordinati il lavoro è una schiavitù, come onestamente dichiarò Wystan Auden. Non ci sfugge che per molti sopraordinati il lavoro è fottere gli altri, come onestamente dichiarò Pier Luigi Celli. Dunque, se su questo “lavoro” si fonda la repubblica, allora anche la servitù e la prepotenza sono cementate nelle sue fondamenta.

Questo “lavoro” grezzo, generico, all’ingrosso, è evidentemente il residuo consunto di uno stadio infantile della nostra consapevolezza, quando con una parola si poteva indicare magicamente tutto un mondo. Ma quel tempo di universali e di essenze è finito. Ora bisogna essere più accurati per rispettare gli esseri umani.

Solo in fisica si può parlare genericamente di “lavoro”: una grandezza definita matematicamente come prodotto di una forza per lo spostamento dell’oggetto al quale la forza si applica. Le persone invece non sono oggetti. E non si può parlare delle persone negli stessi termini che si usano per gli oggetti. Altrimenti vengono automaticamente ridotte a oggetti, e facilmente trattate come oggetti, senza che nessuno sappia dire come è successo. Per noi il “lavoro” può essere estasi e supplizio, orgoglio e disperazione, vita e morte, e la sua profondità e ampiezza meritano una considerazione molto più fine.

Al contrario, la glorificazione del “lavoro” in astratto, a bassa risoluzione, significa discriminazione. Perché nasconde e reprime la sofferenza di tutte quelle persone che sono costrette ad accettare condizioni di lavoro infami per campare, e ciononostante dovrebbero sorridere al “lavoro” e ringraziare. E per quali scopi sociali, in ultima analisi? Per l’aumento del PIL. Quel numero idiota che con la medesima rozzezza del “lavoro” annovera i santi insieme ai ladri. Quel numero che non ci rappresenta e che mai ci aiuterà a migliorare, né collettivamente, né tanto meno uno per uno.

Non è tutto questo umiliante, indegno, poco intelligente e poco promettente? Non sarebbe più corretto dire che la nostra repubblica è basata sugli esseri umani, e da lì ricominciare?

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Stefano Diana

Researcher / author / creative / comp-sci. Relentless explorer of the calculable | incalculable frontier across all fields.